Come fosse «Beautiful», passano le puntate ma la storia è sempre quella, e i personaggi pure. Al massimo cambiano cravatta, o poltrona, ma che si parli di capitani coraggiosi, di furbetti del quartierino, di calciopoli o di spioni Telecom, saltano e risaltano fuori gli stessi protagonisti, in un intreccio spettacolare e inestricabile, a meno che non si ricorra alla dietrologia. Fa impressione, per esempio, notare che Giuliano Tavaroli ed Emanuele Cipriani intercettavano, fra gli altri, Franco Carraro, Diego Della Valle, Cesare Geronzi, Emilio Gnutti, Gianpiero Fiorani, il forzista Aldo Brancher, già protagonisti di uno scandalo o di quell’altro, di una scalata riuscita o di una mancata.
Non è roba che si intuisce soltanto oggi. Per esempio, non erano trascorsi più di dieci giorni dalla pubblicazione delle disinvolte telefonate di Luciano Moggi, e si scoprì che l’arbitro Massimo De Santis era stato pedinato, fotografato e controllato sui conti correnti nell’ambito dell’«Operazione ladroni» condotta proprio da Cipriani. Oggi, semmai, si viene a sapere che Cipriani ha ricevuto denaro attraverso la Worldwide Consultant Security dall’Fc Internazionale Milano, cioè dall’Inter. E si ripensa alla volta in cui un altro arbitro, Danilo Nucini, era andato a denunciare il sistema-Moggi a Giacinto Facchetti, presidente dell’Inter appena scomparso. Facchetti registrò le parole di Nucini su un cd, e lo invitò a ripetere tutto in procura. Nucini non lo fece. Era il 2002. L’anno dopo, 2003, Cipriani cominciò il suo lavoro su De Santis.
La nomina di Guido Rossi alla presidenza di Telecom al posto di Marco Tronchetti Provera ha ulteriormente scosso il mondo del calcio, perché Rossi era anche commissario straordinario della Figc, e Telecom è sponsor ufficiale del campionato. Ma gli straordinari incroci fra Telecom e Inter sono ben altri. Il patron della squadra, Massimo Moratti, è nel cda della Telecom, così come Tronchetti Provera è azionista dell’Inter, oltre a esserne sponsor con Pirelli. Soprattutto c’è Carlo Buora, vicepresidente operativo di Telecom e vicepresidente dell’Inter; e in Telecom era stato messo da Tronchetti Provera a supervisionare «la prevenzione e la gestione delle eventuali crisi collegate ai rischi di terrorismo internazionale» di cui si occupava Tavaroli.
E’ stupefacente come le cose si sovrappongano in modo suggestivo, e da lustri. Negli anni Novanta Rossi si era applicato alla privatizzazione di Telecom. Quando i capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno progettarono l’Opa sulla società telefonica, l’amministratore delegato Franco Bernabé - pupillo di Rossi dai tempi della ristrutturazione dell’Eni successiva allo sfascio provocato da Mani pulite - pensò di ostacolarla accorpando Telecom e Tim, e alzando così il prezzo fino a una quota irraggiungibile per Colaninno. Bernabé fallì perché Bankitalia di Antonio Fazio e il Tesoro con Mario Draghi (oggi erede di Fazio in via Nazionale) non si presentarono all’assemblea che avrebbe dovuto varare la fusione. Fusione che sarebbe poi riuscita, anni dopo, proprio a Tronchetti e prima che l’idea di riseparare le società non lo facesse cadere, di nuovo a beneficio di Rossi. E’ un vortice. Insieme col vincente Colaninno c’era Gnutti, e in seguito si aggiunse Giovanni Consorte con la Unipol, la compagnia assicuratrice della Lega delle Cooperative. Il grande sostenitore era Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, e autore della lettera con cui convinse Draghi a disertare l’assemblea, in nome dell’indipendenza dell’imprenditoria dalla politica. Una lettera ora paragonata da Giulio Tremonti a quella spedita da Angelo Rovati, ex assistente di Romano Prodi, a Tronchetti Provera. Gnutti e Consorte, e poi Della Valle, Fiorani e Brancher, fra bacetti in fronte al governatore Fazio ed eccitamenti via cavo del premier Silvio Berlusconi, sono stati i primi attori dell’estate 2005, quella delle scalate bancarie e delle fregole sul «Corriere della Sera», nel cui patto di sindacato c’è il solito Tronchetti Provera, e tutta l’imprenditoria chic italiana, compresi Geronzi, i Benetton e Carlo De Benedetti, inseriti nella lista degli spiati da Tavaroli, che rispondeva a Buori, che rispondeva a Tronchetti.
Tutti spiati. Spiata, pare, Marina Berlusconi, il cui padre Silvio è indicato fra i pretendenti a Telecom, proprio come De Benedetti. Spiato Brancher, forse perché sodale di Fiorani, forse perché sodale fedelissimo di Berlusconi dalla volta in cui, nel terribile 1993, recluso per tre mesi a San Vittore, non aprì bocca guadagnandosi il titolo di «Greganti del Biscione». Spiato Della Valle, forse in quanto presidente onorario e condannato della Fiorentina, forse in quanto nemico numero uno di Stefano Ricucci, rastrellatore di quote Rcs in una passata e ruggente stagione.
Spiato Franco Carraro, forse per il suo ruolo in Calciopoli che l’ha portato a dimettersi dalla Federcalcio. O forse per il suo ruolo di presidente nella banca d’affari della Capitalia di Geronzi. E cioè la Capitalia che attraverso gli olandesi di Abn Amro (che per consulente avevano Rossi) si è presa Antonveneta dopo il bluff e l’arresto di Fiorani, numero uno della Popolare di Lodi. Fiorani venne incarcerato nell’ambito dell’inchiesta sui furbetti del quartierino, nata anche su stimolo di Rossi. L’esposto da cui partì l’indagine della procura di Milano era stato pensato in una riunione nello studio di Rossi con un advisor di Abn Amro e un dirigente della Popolare di Lodi ostile a Fiorani. Ed era alla banca di Fiorani che D’Alema pagava il muto della barca, il medesimo D’Alema accusato da Rossi di essere stato il capofila della merchant bank di Palazzo Chigi («l’unica in cui non si parla inglese»), e si potrebbe ricominciare da capo, in un interminabile ritorno al futuro.
fonte la stampa 23/9